mercoledì 30 aprile 2014

In viaggio con “I racconti del focolare” di Silvio Coccaro



Chi ha detto che durante le sere d’inverno, quando una morbida coltre di neve ricopre le fronde degli alberi e i rumori del giorno, davanti al piacevole crepitare del fuoco nel camino possano trovare spazio soltanto storie e leggende del passato? Chi pensa che non possano avere la stessa magia di queste ultime anche le storie dell’oggi o, addirittura, quelle ambientate in un fantascientifico futuro? Se qualcuno avesse ancora simili convinzioni, dovrebbe leggere “I racconti del focolare”, splendida opera prima di Silvio Coccaro, pubblicata nei mesi scorsi dalla Casa Editrice L’ArgoLibro.
E sottolineo splendida per due motivi: lo stile narrativo che procede attraverso una scrittura ineccepibile sotto ogni aspetto, semplice, lineare, priva di inutili fronzoli, mai prolissa né pomposa, neppure là dove ricorrono termini irrimediabilmente scientifici; l’incanto che suscita ogni singola storia di questa raccolta.  
Sono storie dei giorni nostri, di ieri e del domani, storie reali e, per ora, irreali, ma non improbabili, dalla cui lettura si apprende, non senza stupore, che l’autore è anzitutto un uomo di scienza. Ecco, dunque, la narrativa come utile strumento di divulgazione scientifica, rivolto tanto ai più giovani quanto agli adulti. Ma la scrittura del dottor Coccaro non è solo questo: è anche scrittura di profonda delicatezza che sa parlare di sentimenti, che si volta rispettosamente indietro riconoscendo la grandezza della cultura classica (a partire dal “conosci te stesso” di socratica o più antica memoria) e che a tratti s’intinge di malinconica poesia.
Come già evidenziato da Milena Esposito nella sua brillante prefazione al libro, “I racconti del focolare” regalano al lettore tanti viaggi diversi: tra gli infiniti e inimmaginabili spazi siderali a bordo di una navicella cosmica in compagnia del capitano Luskhas Harowicki, così come lungo i non meno misteriosi sentieri del pensiero, perché, se è vero che uno sconfinato universo circonda l’uomo, la mente umana rappresenta tuttavia un universo ben più vasto di tutti i possibili universi esistenti e, come tale, richiede esplorazione; ancora, in giro per il mondo seguendo l’inarrestabile percorso di una gocciolina d’acqua o al chiuso di un ospedale, dove a una bimba appena venuta alla luce la vita già impone di affrontare una prova durissima.
Il viaggio che però colpisce ed emoziona in modo particolare, al di là di ogni tempo e appartenenza geografica, è forse quello tra i ricordi e gli affetti più cari sullo sfondo di un “mondo semplice trascorso per sempre”, quale è il Cilento della fanciullezza dell’autore. Un mondo, più o meno come ovunque, per buona parte scomparso e velato di nebbia, proprio come quella che, nell’ultimo racconto, scende sui passi di padre e figlio di ritorno verso casa, mentre il sole s’accinge a tramontare su un’altra giornata di speranza e lavoro: 

“La nebbia risale a falangi lungo l’erta collinare che dall’Alento porta alla vetta della Rupe ra Noce. Tra le sue schiere si insinuano, come fendenti, luminosi raggi di sole. L’aria intrisa di umidità scorre fredda sul mio viso. […] La nebbia progressivamente nasconde ai nostri occhi i terreni coltivati della valle, […] ed adesso è ai piedi della montagna. […] Papà si rinserra nel suo pastrano, i suoi occhi scrutano la valle e si perdono nella nebbia, come i suoi pensieri… La primavera si avvicina, i campi richiedono molto lavoro, il tempo è sfavorevole, i suoi numerosi figli sono a casa che lo aspettano. […] Il buio della sera avvolge la casa con la sua quiete ed il suo silenzio.”  (da “Un giorno, un ricordo”)

Laura Vargiu




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