sabato 15 luglio 2017

Zygmunt Bauman: l'intervento di Luciana Capo



Lo scorso marzo a L'ARGOLIBRO abbiamo dedicato un appuntamento a Zygmunt Bauman, il grande studioso della società contemporanea scomparso lo scorso gennaio.
L'incontro è stato curato dal professor
 Giuseppe Lembo e dalla Professoressa Luciana Capo. Vi proponiamo la relazione della Professoressa Capo, che certamente offrirà a tutti noi ulteriori spunti di riflessione.

Zygmunt Bauman e l’Amore liquido*
Luciana Capo

In una società dove esiste la grande sapienza narrativa del digitale, percepita nella profonda ambizione di una dimensione contemplativa, vengono a delinearsi confini definiti che si muovono, come Orfeo, tra la luce e l’ombra in un’atmosfera di trasparenze. Per fortuna il viaggio nell’anima non si ferma e le emozioni sfidano ciò che è velato, nascosto, forse estremo e disperato e Galilei ci costringe ad aprire gli occhi sul vero, su una umanità che odora di sangue e sgomento e che affascina, sconvolge, converte. Forse le parole potranno salvarci? C’è nell’uomo una sottomissione volontaria alle parole gelide ed evasive, parole che non hanno fede né cielo, consumate dai network ma fatalmente contorte da visioni di bellezza e desiderio struggente. L’avventura dell’uomo si spegne e si consuma nel suo sguardo, in uno sguardo che ha tradotto ogni emozione, ogni tormento, ogni entusiasmo, ogni dolore in segni nei quali si esprime il senso della vita; e il calore e la morbidezza dell’Io non graffiano ma accarezzano. La storia ci riporta ad un utopista, Dario Fo, che insegnava agli studenti l’arte di cambiare il mondo, in una Milano degli anni ’70, dura e bellissima, appassionata di tutto: di pittura, di cinema, di architettura, di editoria, di giornalismo. Egli era un uomo rinascimentale, innamorato di qualsiasi forma di espressione artistica… e oggi? La tecnologia invita alle manipolazioni più decisive e dissennate, ma l’uomo non può uccidere ciò che ama e lo farà per la gelosia e il dolore di sentirsi straniero, impaziente di scoprire il peccato, irretito dal suo stesso struggimento vademecum della volubilità e del disinganno. Salvare il mondo sarebbe rivedere allo specchio immagini vere, talvolta crude e brutali, perché crudeltà e brutalità sono nella natura delle cose e degli eventi e che la qualità del dialogo ci restituisce integre e compatte nei contenuti, senza finzioni né assenza di passioni, oltre le barriere della visione. La visione assedia, concupisce ed un vento impetuoso agita sempre i sogni dove ogni particolare è accolto e anticipato. Forse nella notte di Pietroburgo Dostoevskij fissa l’archetipo del visionario malinconico che fugge il mondo perché il mondo non corrisponde al suo ideale. Lo smarrimento che spinge a ripiegare in se stessi, che blocca nell’immobilità e poi nel rimorso dell’immobilità, è un elemento costitutivo del flusso di coscienza e della “schizofrenia esistenziale” contemporanea. “Noi abbiamo perduto la nostra ombra reale, quella che ci fa il sole, perché essa non esiste più per noi, non le parliamo più, e con essa il nostro corpo ci ha lasciato”. (Dostoevskij, Notti bianche ). Bauman nell’“Amore liquido” ci parla della relazione, dell’ossessione, dell’erotismo, dell’ansia e del turbamento, della luce e dell’incubo delle anime a brandelli e del gioco a due che si rinnova con una misteriosa, cieca ma vitale speranza. Ricordo la fiaba della “Piccola fiammiferaia”: ella vaga per le strade e prega i passanti di comprare i fiammiferi, l’offerta della luce, del calore, dell’amore che sente, che soffre, che palpita e che desidera e che, probabilmente, vuol fuggire dall’oscurità della freddezza. La freddezza segna la fine di ogni relazione. Non appena si diventa gelidi nel sentimento, nel pensiero o nell’azione, la relazione diventa impossibile. E così la piccola fiammiferaia accende tutte le sue risorse per vivere e il fuoco è il simbolo più importante del vivificatore della psiche.
Nelle “Notti bianche” di Dostoevskij Nascenka è la ragazza ingenua, tutta dedita alla cura della vecchia nonna, prigioniera della sua apprensione, che sogna di andare sposa ad un principe, impaziente di scoprire il peccato; e così il giovane inquilino la affascina e la irretisce senza sfiorarla. Si avverte nel suo animo il senso dell’effimero e dell’eterno e un afflusso di linfa , sempre fecondo. L’emozione ha molti volti: quello di cera, quello di alabastro, quello ambiguo e puro , ma ciò che li accomuna è il deliquio, la perdita dei sensi e i colori della consunzione. In tutto ciò l’anima non è mai vittima insoddisfatta e resta regina. La razionalità liquido-moderna negli impegni duraturi ravvisa oppressione e una dipendenza incapacitante. Vincoli e legami rendono i rapporti umani “impuri” come farebbero con qualsiasi atto di consumo che presume soddisfazione istantanea e istantanea obsolescenza dell’oggetto consumato. Bauman parla di un mondo avvolto in una fitta rete di chiamate e messaggi che lo rende invulnerabile e l’obiettivo (anche quando si parla di amore) è quello di non farsi accalappiare e di evitare gli abbracci troppo soffocanti ed anche i contatti sessuali sono soffusi e dispersi, mutano direzione guidati dalla seduzione degli oggetti del desiderio. L’essenziale è essere connessi e “le connessioni sono solide rocce circondate da sabbie mobili”(Bauman, Amore liquido). Tutto ciò rende superflua l’attenzione allo sguardo degli altri e gli occhi si sono trasformati in muri bianchi e un muro bianco di fronte ad un altro muro bianco non provoca alcun danno. Persino il viaggio è reso superfluo dall’artificio della connessione. La liquidità dei cellulari segnala materialmente e simbolicamente la definitiva liberazione dal luogo. Ma l’uomo non può liberarsi di se stesso e della sua vita piena di significato dovendo cercare di incanalare la modernità liquida in una vibrante agorà, centrata sull’identità. Hegel ci dice che la nottola di Minerva, dea della sapienza, distende le ali prudentemente al crepuscolo; la conoscenza giunge alla fine del giorno, quando il sole si è posato e le cose non sono più ben illuminate e facili da trovare e maneggiare (ben prima che Hegel coniasse la metafora della nottola che indugia, Sofocle aveva fatto della chiarezza della visione il monopolio del cieco Tiresia) e Martin Heidegger aveva parlato di una buona illuminazione che è autentica cecità; non si può vedere quello che è fin troppo visibile,ci si accorge delle cose quando scompaiono o vengono distrutte. La modernità si è specializzata nel mettere in moto il mondo, ha spalancato la possibilità e la necessità di dare una nuova forma. Marx ed Engels elogiarono i rivoluzionari borghesi che avevano dissolto ciò che è solido e profanato ciò che è sacro, ovvero le cose che per lunghi anni avevano tarpato i poteri creativi dell’uomo. I Filosofi del Rinascimento celebrarono le prospettive straordinarie che l’incompiutezza della natura umana spalancava all’audacia e al talento. Pico della Mirandola annunciò con gioia e soddisfazione: “Possiamo diventare ciò che vogliamo”. Il Proteo di Ovidio che poteva trasformarsi da giovane a leone, cinghiale, serpente, pietra o albero e il camaleonte, grande maestro della reincarnazione istantanea, divennero i modelli della virtù umana appena scoperta dall’autoaffermazione. Alcuni decenni più tardi, J. J. Rousseau avrebbe chiamato “perfettibilità” l’unico attributo necessario di cui la natura abbia dotato la razza umana, identificando nella capacità di autotrasformazione la sola essenza umana e il solo tratto comune a noi tutti. Gli uomini sono liberi di creare se stessi. La necessità di divenire quello che si è, è la caratteristica della vita moderna e non della individualizzazione moderna. 3
Gli antichi già conoscevano la verità? Nel suo dialogo “De vita beata” Lucio Seneca sottolineò che in netto contrasto con i piaceri della virtù, le delizie dell’estasi si raffreddano nel momento in cui sono più intense; la loro capacità è così limitata da esaurirsi in un istante. Ravvivati per un attimo fuggevole, coloro che cercano il piacere dei sensi cadono rapidamente nel languore e nell’apatia. Seneca ammoniva: “La gratificazione che giunge più rapidamente è anche quella che per prima muore”. La fragilità endemica della gratificazione istantanea e lo stretto rapporto tra l’ossessione del piacere, l’indifferenza per quello che è stato e la sfiducia per quello che verrà tendono ad essere confermati, oggi, proprio come succedeva 2000 anni fa. Un dei più perspicaci sociologi del nostro tempo, Pierre Bourdieu, ha dato a un lavoro del 1997 il titolo “Oggi la precarietà è dappertutto”. Se questo è vero, per scongiurare la frustrazione sarebbe opportuno astenersi dal coltivare abitudini e legami. Uomini e donne sono, dunque, addestrati a percepire il mondo come un contenitore pieno di oggetti usa e getta, inclusi gli esseri umani. La vita frammentata tende a essere vissuta episodicamente come una serie di eventi non connessi. Ritorniamo al tema iniziale: L’amore ha bisogno della ragione? Nel Processo di F. Kafka l’amore è colpevole di essere accusato; e se anche ci si può discolpare dei delitti di cui si viene accusati, non c’è difesa contro l’imputazione di essere accusati. Nel Simposio di Platone, Aristofane lega l’amore al desiderio di una completezza ancora mancante: “Il desiderio del tutto e la sua ricerca è detta amore”. Quello che va a gloria dell’amore è nel contempo la sua disgrazia. L’Infinito è anche Indefinito, non può essere identificato, circoscritto, misurato, è tetragono ad ogni definizione, fa saltare i sistemi, viola i confini. L’amore ha bisogno che la ragione lo salvi dalla sua follia perché la società liquida gli oppone persone senza reddito, madri senza marito e troppi vecchi soli… Forse viviamo in un secolo violento, un secolo di violenze stimolate dalla progressiva esautorazione degli Stati a opera dei poteri globali scatenati. Oggi, liquidamente c’è un indebolimento dei legami che è una condizione importante per il successo della produzione sociale di collezionisti di sensazioni che sono anche maturi ed efficienti consumatori. In questo modo siamo giunti in un territorio in cui gli esseri umani non hanno mai abitato, forse dovremmo appellarci alla Dea di Parmenide, che è signora del tempo e che rivela la verità. Questa Dea non abita un Olimpo affollato di immortali negligenti o distratti. La Dea è la verità, ciò che la filosofia insegue come problema più profondo. In tal senso, la verità è primordiale e originaria. Ma noi siamo ancora capaci di vedere la terra e il cielo come i Greci ebbero modo di vederli e contemplarli? Almeno questo occorre tentare, porsi con il pensiero in quel tempo eterno che Parmenide abitò, trasmettendo all’Occidente, e in particolare all’Europa, il senso stesso della civiltà. Probabilmente dobbiamo pensare al trascurato frammento 14, a quanto Parmenide afferma della Luna: “Luce che brilla nella notte, errante attorno alla terra, di uno splendore che proviene d’altro luogo”. Le domande di Parmenide sorgevano da una terra che accoglieva tutte le cose nel grembo di ciò che egli con riverenza chiamava physis e ognuno le deve la memoria dell’Immortalità.

* Zygmunt Bauman (Poznań, 19 novembre 1925 Leeds, 9 gennaio 2017), Amore liquido, traduzione di S. Minucci. Collana Economica Laterza, Bari 2006, pp. XII-219. 

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